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Immagine del redattoreFabio Salvati

I DUE PAPI di Anthony McCarten - traduzione Edoardo Erba - Regia di Giancarlo Nicoletti


Questi nostri difficili tempi ci hanno regalato il privilegio di una inedita situazione dell'epoca moderna: le dimissioni di un papa e la coesistenza di due personalità nel Magistero più alto della Chiesa Cattolica.

A questo riguardo tanto si è scritto, con qualche vagheggiamento d’anticipo, basti pensare al film di Nanni Moretti Habemus papam (che risale al 2011, cioè ben due anni prima delle dimissioni di Papa Ratzinger, segno evidente che la cifra semantica che nutriva quella drastica decisione stava diventando plausibile per i tempi).

Tanto si è scritto -si diceva- sulla coesistenza di due personalità così differenti. Qualcuno, pure a sproposito, tacciando il nuovo pontificato di una sorta di peccato di usurpazione, argomentando sulla tenuta apostolica di Benedetto XVI, che si era sì dimesso, ma senza cessione di sovranità. Ciò che avrebbe svuotato il Magistero di Papa Francesco.  

La commedia -andata in scena sul palcoscenico del teatro Ciak, una ripresa, per soli due giorni, dopo il successo delle scorse stagioni-  ripropone il tema della coesistenza dei due Pontefici nella elaborazione originale dell'autore Anthony Mccarten diventata poi un celebrato film sulla piattaforma Netflix con Jonathan Pryce e Anthony Hopkins.

In scena due giganti del teatro italiano, Giorgio Colangeli –che veste i panni di Benedetto XVI- e Mariano Rigillo nella porpora cardinalizia del futuro Papa Bergoglio. Sì perché l’incontro tra i due viene retrocesso al momento in cui entrambi stavano maturando, ciascuno per ragioni differenti, la decisione di rimettere i rispettivi mandati. L’uno –quello storico- da Pontefice, l’altro dal proprio ministero cardinalizio, nella desolante sede argentina, tra i barrios della periferia di Buenos Aires.

Anche su questo spettacolo tanto si è scritto e la presente riflessione a margine della serata di debutto vuole, cercando di evitare il già detto, puntare l’attenzione su un altro aspetto fondamentale: il potere della dimensione dialettica.

Inevitabilmente, la cifra drammaturgica impegna un confronto –neanche troppo serrato- tra due personalità differenti che finiranno con il comprendersi (ed è inutile aggiungere che i due interpreti tengono magnificamente la contesa).  Ma messe da parte le rispettive, e ben note, postazioni intellettuali e teologiche, la percussione emotiva che rimane nello spettatore è l’acuta analisi all’interno di una scelta di resa che avvince entrambe le figure.

Benedetto XVI confida alla suora di servizio (impeccabile nella parte Anna Teresa Rossini) l’approdo del suo tormento, la scelta di dimettersi, ancora mimetizzando le ragioni di quella decisione, nella divagazione insistita sul bisogno di evasione che lo conduce a quella ridotta di servizio, in fuga dalla magnificenza equivoca e poco trasparente della Sede Vaticana. Sa che la sua è una decisione inedita per l’epoca moderna, e non ha bisogno di misurarsi con i richiami ai propri immutabili doveri di Pastore di oltre un miliardo di fedeli. Lui non sente più la voce di Dio e non chiede altro che interrogarsi su questo vuoto, responsabile dell’esiziale rimando delle scelte, avvertite invece come urgenti per la Chiesa romana. La sua vocazione di studioso, capace di erudite e ponderose produzioni dottrinali, ha compromesso per sempre la sua attitudine a misurarsi con la realtà, neppure richiamando i tempi giovanili.

In perfetta contemporaneità, nella propria sede argentina il cardinale Bergoglio è pervenuto ad una medesima risoluzione: alla fedele suora che lo affianca (bravissima l’attrice Ira Fronten che la incarna) confida la decisione di rimettere il proprio incarico. La suora ne implora il ripensamento, perché c’è un mondo di poveri che ha bisogno del suo apostolato. Ma il cardinale è irremovibile e intende inseguire il necessario viatico del pontefice, raggiungendolo fino alla sua sede romana. A motivarlo non è il conseguimento dei limiti anagrafici (come evasivamente dichiara alla propria assistente), ma una vocazione cambiata negli anni e che oggi, al compimento dei 75 anni, lo pone in aperta contraddizione con la Chiesa romana non disposta a rivedere il nuovo dei tempi.

Questa la genesi del confronto tra due soggettività profondamente differenti (che avranno modo di manifestarsi nella propensione più effervescente e perfino rock del cardinale Bergoglio, al cospetto di quella stancamente classica del suo interlocutore) ma felici di ritrovarsi all’interno di un agone di disputa dove sentire la voce dell’altro è avvertire nuovamente il richiamo dell’Assoluto.

Da segnalare la regia firmata da regista Giancarlo Nicoletti, la traduzione teatrale di Edoardo Erba e il sontuoso impianto scenico, di grande impatto, realizzato da Alessandro Chiti.

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